È il primo giorno di novembre, mi sono svegliato tardi e sto lasciando che la giornata scorra secondo il proprio ritmo senza forzature, con orari e programmi modellati su nient’altro che le mie personali esigenze. Fame, sete, sonno, un nuovo post seMIgrante per raccontare un’esperienza insolita, di quelle da incartare e conservare in mezzo ai piccoli tesori da portarsi dietro nella quotidiana migrazione verso il futuro. Sedendomi alla scrivania, con la nebbia autunnale che si dissolve dietro le finestre, ed una tazza di tè cinese mischiato con semi di cardamomo, faccio due conti e mi sorprendo a constatare che il viaggio che vorrei raccontare è cominciato esattamente un anno fa.
Il 30 ottobre 2013 muovevo i primi passi da seMIgrante, io e il progetto ci stavamo conoscendo reciprocamente, ci squadravamo l’un l’altro prendendo le rispettive misure. Mettevo piede per la prima volta su un tapis-roulant e smaltivo i postumi di una vicenda sentimentale appena conclusa. Il 2013 era anche stato dichiarato dalla FAO “Anno Internazionale della Quinoa”.
Poche settimane prima questo grano andino era stato inserito tra le specie esotiche di cui Nutrire la Città che Cambia si sarebbe occupato, per questo motivo mi sentivo direttamente coinvolto e avevo la smania di imparare tutto sulla complessa realtà di questa pianta nel minor tempo possibile. Appresi così che la quinoa fu consegnata nelle mani dell’uomo millenni orsono direttamente dagli Dei, e che fu riscoperta negli anni ’70 del Novecento dalla NASA per essere utilizzata come alimento durante le missioni spaziali. Un seme miracoloso, sceso dal cielo sulla Terra per volere divino, per poi ritornarci portato dagli stessi uomini.
Proprio in quei giorni si teneva al Palazzo della Regione Lombardia, a Milano, il congresso internazionale Quino@ndo, a cui parteciparono, oltre ad alcuni esperti dell’Università Statale, numerose delegazioni diplomatiche dei Paesi andini dove si concentra la produzione. In quell’occasione il delegato dell’Estado Plurinacional de Bolivia mi colpì in particolar modo, con uno dei principi che maggiormente ispirano il governo del presidente Evo Morales Ayma – primo capo di Stato indigeno dell’America Latina – e coloro che lo seguono dall’esterno: non basta vivere, bisogna vivere bene!
In occasione del congresso riuscii ad entrare in contatto con Giuseppe Crippa, console della Bolivia con sede a Bergamo. Nel mese di dicembre presi un treno verso la bella patria della polenta taragna e dei casoncelli, e visitai il consolato dell’Estado Plurinacional, un piccolo appartamento al piano terra di un vecchio palazzo, dove trovavano posto poco più di uno sportello aperto al pubblico e dell’ufficio del console. Questi mi raccontò che entro pochi mesi il consolato avrebbe aperto una sede più grande a Milano, e mi indirizzò dalla signora che lì avrebbe rappresentato il governo boliviano. Con l’anno nuovo ebbi l’opportunità di essere ricevuto da Eva Gloria Chuquimia Mamani.
La nuova sede si trova nel cuore della metropoli, in Corso Buenos Aires, e lo spazio è decisamente più grande e capiente. Elementi immancabili a prescindere dalla grandezza o dall’importanza del luogo, sono i segni di riconoscimento dello Stato, il ritratto del presidente, la bandiera della Bolivia, e la Wiphala di Qullasuyu. È un grande vessillo che rappresenta una scacchiera variopinta, con tutti i colori dell’arcobaleno. Questa bandiera riunisce i popoli delle Ande, in particolare quelli della regione corrispondente all’attuale Bolivia. Ogni regione andina presenta infatti la propria tipica Wiphala.
Lo scorso sabato mattina ho aperto distrattamente la casella della posta elettronica, e l’ho scorsa senza troppo impegno, avendo lo spirito già rivolto al fine settimana che stava cominciando. Con grande sorpresa ho invece trovato un’e-mail del consolato boliviano che mi invitava ad una conferenza che si sarebbe tenuta il mercoledì successivo a Roma, presso l’Università La Sapienza, nella quale sarebbe intervenuto nientemeno che il presidente Morales! Il preavviso era minimo, ma d’altronde l’evento era stato confermato soltanto all’ultimo minuto. Il tempo di confrontare i prezzi di Frecciarossa e Italo, e avevo i biglietti per Roma.
Dal momento che è impossibile transitare per la capitale senza nemmeno godersi almeno un’istantanea di qualche panorama sul suo eterno centro storico, raggiungo i quartieri più antichi alla ricerca di un pranzo veloce. Nonostante mi sia alzato dal tavolo con un adeguato anticipo, impiego più di un’ora per trovare la strada e raggiungere La Sapienza. Arrivo all’Aula degli Organi Collegiali appena in tempo, mi fiondo al tavolo dell’accoglienza, e in men che non si dica vengo recuperato dal personale del consolato di Milano e condotto al mio posto. Riesco appena a prendere fiato e a sfogliare la Costituzione dello Stato Boliviano – redatta nel 2009 e gentilmente donata a tutti i presenti dall’Ambasciata boliviana in Italia – prima che tra gli applausi faccia la sua comparsa il presidente Morales.
Evo è stato rieletto recentemente al suo terzo mandato presidenziale. Nel suo discorso ricorda però di quando agli indigeni come lui non era nemmeno concesso camminare per i marciapiedi delle strade di Oruro – nel sud della Bolivia – poiché l’élite al potere, discendente dei coloni europei, li considerava alla stregua degli animali, senza diritti. La sua persona è la prova vivente che molta strada è stata fatta, ma non bisogna perdere di vista il cammino che ancora si ha davanti. Il modello economico e sociale che insieme alla sua ascesa è stato perseguito in Bolivia negli ultimi anni tiene in grande considerazione l’importanza del diritto di ogni individuo ad esprimere la propria individualità, soprattutto culturale. Per questo ai tre elementi su cui si basa la sua politica – la Costituzione, le nazionalizzazioni e la redistribuzione del reddito – si affiancano i principi del codice morale andino: non rubare, non mentire, non essere pigro.
Avere in mano una copia di questa Costituzione, con una firma autografa del Presidente che l’ha ispirata è un’emoziona unica, grande e profonda. Tra queste pagine prende vita una Nación indígena y campesina, in cui Pacha Mama – la Madre Terra – viene presa in considerazione, diventando soggetto giuridico che gode di diritti costituzionali. Con essa anche la quinoa può ritornare alla vita dopo secoli di persecuzioni, quando la madre di tutti i semi era stata messa al bando, fino a diventare una coltura perduta degli Inca.