Aprendo il numero di Internazionale questa settimana mi è saltata subito all’occhio la sezione Atlante, che parla – non tanto per combinazione, visto che il tema oltre che d’attualità è di gran moda – di agricoltura urbana (http://www.internazionale.it/atlante/agricoltura-urbana/). La mappa tematica a tutta pagina evidenzia con un eloquente colore verde come i Paesi europei che maggiormente sono interessati dal fenomeno siano gli storici fondatori della Comunità Economica, oltre che i più grandi e più avanzati, e per una volta l’Italia è inclusa. A Francia, Germania e Paesi Bassi si aggiungono il Regno Unito, la Norvegia e l’Austria. L’Europa è certamente al centro delle correnti di idee e azioni che stanno diffondendo in tutto il mondo i temi dell’agricoltura urbana, ponendola come ponte tra le città e il cibo che le alimenta. Il testo dell’articolo, però, non manca di ricordare come in verità le sue radici affondino in luoghi molto distanti nel tempo e nello spazio. In primo luogo, nell’Europa del passato gli orti urbani, più che aree multifunzionali come oggi, erano necessari per la sussistenza della popolazione. Coltivare alimenti entro le mura delle città significava poter contare su una fonte alimentare anche quando le comunicazioni con le campagne fossero interrotte, come in caso di guerra. L’esempio più recente e vicino a noi risale al Secondo Conflitto Mondiale, quando persino le aiuole della piazza del Duomo di Milano vennero messe a coltura per produrre grano. L’agricoltura urbana è però un fenomeno maggiormente tipico del Sud del Mondo, delle straripanti conglomerazioni di Africa, Asia e America Latina. Qui manca lo spazio per tutto, anche per la fame, e le soluzioni escogitate per realizzare orti sono varie e ingegnose. Ma il Terzo Mondo non è solo povertà, ed è interessante citare l’AVRDC – World Vegetable Centre – ente di ricerca con diverse sedi in Asia e Africa, che sta producendo i Disaster seed kit, pacchetti contenenti semi di ortaggi selezionati per svilupparsi in poco tempo ed essere resistenti alle malattie, in modo da fornire rapidamente un fondamentale apporto di sostanze nutritive, vitamine e sali minerali, a popolazioni in emergenza alimentare conseguente a disastri naturali.
Poi viene il momento in cui le tradizioni e le conoscenze del Sud e del Nord del Mondo si incontrano, e prendono vita i Microjardins. Questo progetto di agricoltura urbana è stato portato avanti dalla Facoltà di Agraria della Statale di Milano e dell’ONG Acraccs a partire dal 1999 ad oggi, una delle iniziative di cooperazione internazionale dell’Ateneo cittadino più longeve e di successo.
Per Microjardins si intendono luoghi inseriti in paesaggi urbani dove l’orticoltura si realizza con il recupero di materiali di scarto, e si applica la tecnica della coltivazione idroponica semplificata. Sono idroponiche tutte quelle produzioni vegetali che si svolgono… senza terra, che è proprio ciò che più scarseggia negli agglomerati di Dakar e del Cairo, dove il progetto ha luogo.
Nel corso della sua storia il progetto ha visto susseguirsi un gran numero d figure professionali che vi hanno lavorato con entusiasmo. L’esperienza dei Microjardins è stata determinante in particolare per un gruppo di studenti della Facoltà di Agraria di Milano, che al ritorno dal Senegal e dall’Egitto hanno costituito un’associazione all’interno della Statale, Dévelo, con l’importante obiettivo di diffondere il più possibile e creare massa critica attorno ai temi della cooperazione internazionale per lo sviluppo agricolo dei Paesi del Sud del Mondo.
Il suo presidente, Pietro de Marinis, da alcuni anni lavora assiduamente sul progetto dei Microjardins a Dakar. Nel corso dei suoi viaggi nella capitale del Senegal, città dal clima eccezionalmente mite per la regione semiarida in cui si trova, ha avuto modo di mettere a frutto le competenze tecniche derivate dalla sua formazione universitaria per svolgere analisi del mercato ortofrutticolo locale, elaborare una catografia dettagliata con tecnologie GIS, sperimentare negli orti il lombricompostaggio ed il compost tea, per finire con la produzione di video-tutorial in francese e wolof – la lingua tradizionale.