Metuge è il nome di una località del distretto di Pemba, separata dalla baia solo da alcuni campi coltivati, saline e una foresta di mangrovie. Questo nucleo abitato è quanto più da queste parti si avvicina ad una municipalità, meglio detta Posto Administrativo.
Esiste una sola strada asfaltata che esce dalla cidade de Pemba, diretta verso l’interno, dove si incrocia con le poche altre direttrici che la collegano alle principali città del Mozambico. Percorrendola, a un certo punto si giunge ad un incrocio con una strada sterrata, segnalato da alcune baracche con ristorante e parrucchiere, ed un posto di blocco della polizia. La pista si snoda tortuosa attraverso la vegetazione, fino ad un’aldeia, un villaggio sparpagliato nella campagna costituito da capanne di fango con il tetto in foglie di palma, che è Metuge. Lungo la strada principale si allineano poche e basse costruzioni in muratura, un centro d’aggregazione, una biblioteca vuota, gli uffici del distaccamento di un’agenzia governativa, una scuola, una chiesa e una moschea. Lungo questa strada larga e polverosa, inchiodata dal sole come in un film western, sorge un piccolo mercato, con bancarelle in bambù, dove si vendono prodotti agricoli locali, soprattutto mais, manioca, pomodori, quiabo (l’okra…) e molto pesce fresco.
La maggioranza degli abitanti di Metuge sono camponeses, praticano una piccola agricoltura che permette loro a malapena di portare in tavola qualche carboidrato, ma confidano che nel loro lavoro possa trovarsi la soluzione per migliorare il futuro, se non il proprio almeno quello dei figli. Tanti si sono riuniti in associazioni, per concentrare gli sforzi e raggiungere insieme gli obiettivi. L’associazione con cui lavoro si chiama Umalima Uhuva, è composta quasi interamente da donne e il suo slogan è “Acabar com a pobreza, basta con la povertà!”
Quella che tra le donne di Umalima Uhuva gode del rispetto e della considerazione necessaria per incoraggiare le scelte delle compagne ed organizzare il lavoro è dona Elsa. È una signora piccola, la voce acuta, la battuta pronta, ma gli occhi sempre affaticati dalla tristezza. Ha quattro figli, che però non si vedono mai alla machamba – il campo – perché hanno l’età per studiare, e la speranza di costruire un futuro migliore. L’entusiasmo e la convinzione con cui dona Elsa accoglie e partecipa ai progetti di cooperazione internazionale che calano dal Nord del mondo è commovente. Ha ereditato questa predisposizione dal marito, che è mancato all’improvviso, poco prima che potesse salire sull’aereo per volare a Torino, e partecipare all’edizione di TerraMadre del 2014, organizzata da SlowFood.
Dona Elsa racconta che all’inizio di marzo, verso la fine della stagione delle piogge, il fiume che scorre a poca distanza è straripato, e la piena ha portato via la sua casa, oltre a compromettere il suo raccolto. Nel frattempo solleva un telo, adagiato in un angolo, e scopre un cumulo di vasetti pieni di conserve di mango, limone e peperoncino, cucinati, speziati e messi sott’olio, che dona Elsa prepara, infila in una borsa di vimini, e porta in città per essere vendute.